La ferita rappresenta certamente la prima lesione alla quale l’uomo cercò di porre rimedio.
Il fatto che questa patologia fosse la conseguenza immediata ed evidente di un evento traumatico ed il fatto che beneficiasse di alcune semplici pratiche atte a limitarne gli effetti quali il dolore o il sanguinamento, mediante l’apposizione di sostanze fredde o mediante compressione, contribuì a renderla tra quelle più note e curabili. In alcune circostanze si notò che era opportuno che le ferite venissero lavate e protette con teli puliti e che ricoprendole con muschio o foglie ammuffite si riusciva ad evitare che andassero incontro a fenomeni di putrefazione mortale o che guarivano meglio se i margini venivano accostati con punti di sutura. Queste conoscenze empiriche, tramandate per migliaia di anni, portarono il trattamento delle ferite a livelli che potremmo definire moderni presso alcune popolazioni ed in determinati periodi storici. In altre circostanze furono disattese o dimenticate, anche in civiltà importanti con conseguenze drammatiche legate a due complicazioni gravi: l’emorragia per lesione dei grossi vasi, alla quale in qualche modo comunque si riusciva a provvedere, e soprattutto l’infezione, di cui era ignoto il concetto e che diventava inevitabilmente fatale quando evolveva in setticemia o cancrena.
Il primo “specialista” delle ferite della storia della medicina è stato Acargato, un medico dell’era di Celso e Galeno, operante in Roma che veniva definito “Vulnerarius”. In realtà egli era greco ed era venuto a Roma nel 46 a.C., quando Giulio Cesare, al fine di richiamare nella “caput mundi” i bravi medici greci e dell’Oriente, concesse loro la cittadinanza romana: «Omnesque medicinam Romae professores e liberalium artium doctores quo libentis et ipsi urbem incolerent et ceteri adepterent civitate donavit».
Con l’arrivo a Roma di Acargato dal Peloponneso iniziò il periodo di maggior splendore della medicina romana. Acargato era in quei tempi considerato un’autorità nel campo della guarigione delle ferite; medico ingegnoso ed innovatore, egli per la cura delle ferite, così frequenti in quell’epoca, era in grado di far convivere impiastri a base di piante medicinale con medicazioni, meno tradizionali di composizione naturale e di sua invenzione. In quei tempi le ferite non immediatamente mortali, riportate in battaglia, esitavano con grande frequenza in infezione, setticemia e morte, l’opera di Acargato, seppur da taluni criticata, era quindi molto apprezzata e richiesta negli ambienti della milizia.
Ippocrate, considerato il padre della medicina, per spiegare le varie patologie, elaborò la teoria dei quattro umori: sangue, flemma, bile gialla e bile nera presenti nell’organismo in perfetta armonia. Dalla loro instabilità sarebbero derivate le malattie mentre dal ritrovato equilibrio, legato all’eliminazione della sostanza in eccesso, dipendeva la guarigione.
Cinque secoli più tardi Galeno, famoso medico di Pergamo che esercitava a Roma (i romani disdegnavano la professione medica), riprese questa teoria, rielaborandola. La guarigione della malattia era la conseguenza della espulsione della sostanza eccedente, che egli chiamò materia peccans. Il medico poteva favorire questa espulsione somministrando emetici o purganti e soprattutto con i clisteri o il salasso che serviva a depurare il sangue. Le teorie e le indicazioni di Galeno faranno testo per oltre un millennio, fino al 1500, ma ancora agli inizi del XIX secolo capitava che venissero riprese e citate come inconfutabili.
Galeno aveva notato che le ferite che andavano incontro a putrefazione (gangrena) erano inevitabilmente mortali mentre le ferite che andavano incontro a suppurazione (formazione di pus) avevano tendenza a guarire appena il pus veniva evacuato. Pertanto aveva identificato la sostanza peccans da eliminare nel pus ritenendolo per tale motivo bonum et laudabile. Da ricordare anche l’aforisma: ibi pus ibi evacua. Questa sua osservazione verrà purtroppo travisata nei secoli successivi. Accadrà infatti che grandi chirurghi medioevali come Rogerio Frugardi della Scuola Medica Salernitana o Guy de Chauliac ritenuto il fondatore della chirurgia francese, formatosi all’Università di Bologna e Maestro di Chirurgia in quella di Parigi, ma anche il grande Abulcasis che insieme ad Avicenna sarà la massima espressione della chirurgia islamica, tutti autori di testi di chirurgia che rappresenteranno il fondamento degli studi per migliaia di studenti per almeno quattro secoli, attribuiranno a Galeno dei concetti in realtà non suoi.
Essi rifacendosi alla teoria galenica (intesa in modo errato) del pus bonum et laudabile riterranno necessario indurre in una ferita la suppurazione. Allo scopo prescriveranno che sulle ferite vengano versati olio bollente o sostanze caustiche e che vengano trattate con il cauterio, un ferro precedentemente arroventato sul fuoco che consentiva anche di bruciare i vasi sanguigni arrestando la emorragia. Galeno invece aveva ritenuto (erroneamente perché comunque si tratta di una infezione) auspicabile che in una ferita si formasse spontaneamente il pus perché solo così, eliminando questa sostanza peccans, essa sarebbe andata incontro a guarigione.
L’utilizzo del cauterio preferito al tagliente (bisturi) fu dovuto in parte anche all’avversione sia della chiesa cattolica (Ecclesia abhorret a sanguine) che della religione islamica alle pratiche cruente, ma non furono poche le voci di dissenso che confutarono queste teorie. Ugo de’ Borgognoni e suo figlio Teodorico all’Università di Bologna ed il loro allievo Henri de Mondeville a Parigi sostennero che le ferite andavano lavate con aceto o vino (blandi disinfettanti) quindi suturate ed infine fasciate con teli puliti. Il loro metodo ebbe ovviamente successi lusinghieri ma durò il breve spazio della vita accademica dei suoi sostenitori, per essere dimenticato subito dopo. Le loro intuizioni anticipavano di settecento anni quelle di Ignaz Philipp Semmelweis e di Joseph Lister ma sembrarono poca cosa agli occhi dei contemporanei rispetto alla tradizione galenica.